I Gioielli della collezione

A CURA DI ADRIANA POLVERONI

Roberto Paolini è stato un “artista del fare”, che con le mani creava autentici capolavori. Che fossero piatti ingegnosi, quando ancora non si parlava di food, ma il cibo poteva essere comunque un gesto inventivo che, nel suo caso, richiamava appassionati intenditori ben oltre la cerchia del piccolo paese romagnolo, Santa Sofia, dove aveva il suo ristorante. E sia che fossero gioielli, più simili a sculture da indossare. Elaborate, imprevedibili, preziose. Opere uniche.

E Paolini era abile con le mani anche quando realizzava oggetti di arredamento, oggi rubricabili sotto l’egida del design, dove la semplice gamba di un tavolo è essa stessa una scultura, rivelatrice di un pensiero preciso dell’abitare quello spazio.

Ma tutto aveva origine nelle mani, un’abilità che da tempo l’arte che frequentiamo ha messo in secondo piano a favore dell’idea.

Però, che emozione trovare un’idea incarnata in un oggetto! In un vetro lavorato con pazienza, tormentato sulla superficie con spatole e coltelli, contaminato da altri materiali e quasi maltrattato, un po’ come faceva Pollock con le sue tele che sbatteva a terra lasciandoci sgocciolare il colore. Quasi una sfida, un insulto, verso qualcosa che evidentemente si ama molto: un materiale sgualcito, piegato, deformato e poi restituito in una forma nuova. Che racconta, quasi fosse un libro spaginato, il complesso corpo a corpo ingaggiato con esso dall’artista.

I materiali per Roberto Paolini erano importanti, andavano rispettati ma soprattutto esplorati, fino a tirarne fuori le potenzialità, le soluzioni meno ovvie che trattenevano al loro interno. E qui, di nuovo, torna la bella “artigianalità”, il rapporto a volte tormentato tra le mani e le cose. Una relazione segnata da una tenacia che nel caso di Paolini è quasi difficile da comprendere, tanto questa imprimeva un carattere forte, quasi di ineluttabilità a quello che faceva.

Ho avuto modo di osservare diverse volte da vicino le opere di Roberto Paolini, che la figlia Elena conserva con amorevole cura: lampade, installazioni a parete simili a quadri ma che quadri non sono, piuttosto sculture che richiedono una parete per essere guardate, mobili, anche questi più vicini a sculture che a oggetti di arredamento e poi, ma certo last but not least”, i gioielli. E sono questi ad avermi catturato di più, sempre. Sono quindi in un certo senso orgogliosa, sebbene un po’ intimorita nell’addentrarmi in una materia che non è la mia, a scrivere di questi. Cercherò di farlo facendo parlare anzitutto la sorpresa dei miei occhi.

Abbiamo menzionato la tenacia, come un tratto che segna l’opera di Paolini, ma la sperimentazione dei materiali non è meno caratterizzante. E nei gioielli questa attitudine tocca dei vertici non facilmente prevedibili. Metalli, pietre, piume, pane, fil di ferro si mischiano e danno vita a composizioni inusitate. Lunghe collane e poi invece corte, vistosi orecchini e, d’altra parte, preziosi contrappunti del lobo femminile, spille che sembrano microrganismi di fantasia, anelli che sono visioni che si annodano sulle dita della mano.

Ecco, visioni, forse è la parola più pertinente per questi gioielli. Immagini che, nello stupore che suscitano, hanno la qualità di un’apparizione improvvisa e che riescono a unire le due valenze che si rintracciano nella storia del gioiello: il suo carattere rituale, che rimanda a un’armonia celeste e poi il suo secolarizzarsi per divenire, dal Rinascimento in avanti, ornamento personale.

I gioielli che Roberto Paolini creava di notte, dopo una giornata di lavoro passata a inventare piatti con cui aveva incantato i clienti del suo ristorante, tagliando il sonno e riuscendo a dare vita a quelle insolite forme anche quando la sua vista era sempre più compromessa, conservano un carattere rituale. Ma si tratta di una ritualità che per certi versi mi sembra fuori dal tempo perché mette in scena la relazione atemporale, eppure fortemente ritualizzata – certo, in senso mondano – tra ornamento e corpo femminile. D’altra parte, si tratta di creazioni molto sincroniche al gusto, alle tendenze del suo tempo, quasi l’esibizione plastica del costume dell’epoca. In una parola, contemporanee. Sono gioielli eccentrici, di cui si percepisce l’essere risultato di una radicale manipolazione, dove emerge l’eco di tecniche di assemblaggio, la giustapposizione di materiali diversi. Potremmo chiamarli “gioielli-collage”, bric-a-brac d’autore, dove la sperimentazione dei materiali e delle loro possibili combinazioni si sostituisce alla preziosità degli stessi.

E proprio qui sta il passaggio tra un tempo passato del gioiello e la sua attualità. La sua modernità, esplorata da tanti artisti specie nel Novecento, e come inventata con una netta cesura rispetto al passato, tanto da divenire un classico, un piacere del’occhio acquisito e stabile. Proprio queste caratteristiche ne fanno degli ornamenti personali e personalizzati volti ad esaltare la bellezza terrena, senza più nessun rinvio alla bellezza divina di cui un tempo il gioiello era simulacro.

Non a caso i gioielli di Roberto Paolini, oggi di proprietà di un collezionista e della figlia Elena, che l’operazione che cercherò di raccontare tra breve ha riunito, sebbene temporaneamente, in un unico corpus, negli anni Ottanta hanno avuto grande successo, arrivando sulle pagine e sulle copertine di importanti magazine di moda nazionali, come Vogue, Amica e Grazia. Indossati da modelle, alcune delle quali, come Monica Bellucci, divenute poi star del cinema. Dunque, la qualità dell’ornamento è fuori discussione.

Ma c’è dell’altro. Il gioiello è sempre stato il crocevia tra arte e artigianato, per imparare alcune tecniche, soprattutto quelle che richiedevano maggiore precisione e il cui risultato doveva essere la squisita raffinatezza dell’opera finale, pittori e scultori frequentavano le botteghe degli orafi. Era in questi nobilissimi luoghi, dove si tramandava il sapere delle mani, che avveniva parte dell’apprendistato degli artisti, come raccontano alcuni quadri del Rinascimento. Anche per questo motivo il gioiello si mette a confronto con l’arte e, d’altra parte, si parla di arte orafa. Riunendo la Collezione Paolini, stavolta il gioiello è messo a confronto con l’architettura, in particolare dei musei.

Museion di Bolzano, Mart di Rovereto, Palazzo Fortuny di Venezia, Collezione Tullio Leggeri -ALT di Alzano Lombardo, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, MAMbo di Bologna, Fondazione Remotti di Camogli, MACRO di Roma, Collezione Ernesto Esposito di Napoli sono stati i partner dell’operazione che ha riunito la Collezione dei gioielli di Roberto Paolini per presentarli al pubblico. Musei e fondazioni di arte contemporanea, tra i più rappresentativi dello scenario italiano, che si sono fatti tappe del viaggio, da nord a sud della penisola, intrapreso dai gioielli di Paolini durante il 2015. Ma non per prestarsi ad essere meri fondali di una documentazione video e fotografica, che rimane la testimonianza, confluita poi nel volume che avete davanti, della riunificazione della Collezione, ma come parte attiva dell’operazione.

Le immagini del presente volume scattate da Giovanni Perfetti e Donato Testoni, così come le sequenze del video realizzato da Maicol Casale, di cui sono qui riportati alcuni still, sono ispirate all’architettura dei luoghi dell’arte in questione. Per quanto possibile, si è cercato di accordare in un’unica partitura visiva le composizioni di Paolini con i dettagli e i canoni architettonici dei musei e delle fondazioni partner. Operazione facilitata dal fatto che, più che gioielli, si tratta di sculture da indossare, che quindi trovano una naturale dimora nei luoghi dell’arte che hanno visitato.

Infine, vorrei aggiungere una considerazione strettamente personale. Oggi i musei sono legittimamente luoghi dell’arte anche quando questa dicitura appare fuori contesto, specie in riferimento alla produzione e alle attività artistiche contemporanee. Lo sono perché sono queste ad essersi dilatate e ad aver preso indirizzi e percorsi semplicemente imprevedibili fino a qualche decennio fa e dunque anomali secondo certi canoni di riconoscimento dell’opera e spesso di difficile interpretazione.

Pur non rubricando i gioielli della Collezione Paolini come opere d’arte tout court, ma condividendo con queste molti tratti, una sorta di “somiglianza di famiglia”, per dirla con le parole di un filosofo a me molto caro, Ludwig Wittgenstein, l’operazione di cui questo volume è il risultato si iscrive nel processo in atto di evoluzione che i musei d’arte contemporanea sperimentano ogni giorno. Una trasformazione che mette sempre più in relazione le arti cosiddette minori con quelle cosiddette alte, il design con l’arte con la a maiuscola. Pratiche, ibridazioni e nuove frontiere dell’arte esperite in corso d’opera che fanno di questi luoghi la scena viva e pulsante di un mondo che cambia.

Adriana Polveroni

I Gioielli della Collezione – Il Libro