Officina Paolini

A CURA DI DUCCIO TROMBADORI

Roberto Paolini (1934-2012) si è fin dal principio misurato in un cimento creativo senza tregua per realizzare l’idea o l’utopia della unità di vita e arte, un impegno che per un tipo come lui valeva la scommessa di spendere l’intera esistenza. Confinato in sé stesso, presente e al tempo stesso lontano dal mondo, l’artista ha percorso le tappe di un lungo viaggio ‘attorno alla sua camera’ effettuando un monologo visivo che esalta le potenzialità estetiche dei materiali poveri ed elementari. Egli si è voluto e saputo esprimere in più modi senza cercare facili conferme ed ha sperimentato forme di ogni tipo: la sua ‘officina’ ha potuto così offrire al nostro sguardo uno spettacolare casellario di forme che decifra il dramma di un’anima solitaria e fa il controcanto stilistico e morale ad un tempo che privilegia la cultura effimera e del gesto fatto in pubblico.

Consideriamo, per cominciare, l’effetto di una semplice intelaiatura a cesta con aste di ferro a base cilindrica, rivestita da una rete metallica che sembra una occasionale ed estemporanea raccolta di rifiuti. Ma basta avvicinarsi un poco per vedere che si tratta di un apparente affastellamento: qualcuno ha cercato di governare il caos, ha perseguito un ordine di esposizione elaborando strani oggetti per mimare una spontanea e casuale armonia. Manipolato con cura, qualche spezzone di terracotta si amalgama ad un modellato di bottiglie in vetro colorato con i colli oblunghi e quasi liquefatti da un’eccessiva ed imprevedibile esposizione al calore…

Le bottiglie chiuse in gabbia mimano i prelievi del rifiuto urbano, e in un certo senso si tratta precisamente di rifiuti… Però: che strano effetto compositivo, che trillìo misurato di colori, che sensazione visivo-tattile suscita quell’incontro fortuito di metalli, vetri, e terracotta! Ecco allora che il sentimento si apre alla poesia del minerale, e si rivela il pregio estetico quando l’inorganico si manifesta come elemento primordiale e sublime mentre fa capolino dal più inosservato angolo dei consumi  riciclati.

La cesta di ferro con le bottiglie fuse e dipinte (fig. 1) riassume in buona parte l’intenzione che distingue l’opera completa di Roberto Paolini, ammirevole per la varietà di espressione e però sorprendente per la costanza che caratterizza la sua ‘maniera di vedere’. Figlio e testimone del suo tempo così pieno di fragori e rumori egli si qualifica come messaggero di una incontaminata espressività che comunica manipolando materiali minimi in una complessità di varianti formali da cui spicca il segno della originalità.

Paolini è dentro la vita, si immerge totalmente nell’esperienza esistenziale, ne raccoglie le inconsulte vicissitudini, le filtra e se ne distacca con l’opera compiuta, che si manifesta come parte della realtà e al tempo stesso sembra parlare da un altro mondo.

Appare originaria – ben più che originale – l’opera scontrosamente discreta quando diventa paradigma di oggetti materiali, muti ed immobili che hanno il merito essere il controcanto visivo del flusso ordinario del 8 9 rovesciarla in trazione, rielaborandola per tirare fuori linee arcuate, corrispondenze volumetriche in alternanza degli elementi preferiti: ed ecco che il virgulto polimaterico gli cresce nelle mani, si articola su tre dimensioni, o prende la piega del quadro bidimensionale, frutto di strati sovrapposti a variante calibrata di colore (fig. 2; fig. 3; fig. 4). L’anima di questi oggetti -bi o tridimensionali- consiste nel gioco combinatorio delle forme e nella corrispondenza simultanea degli effetti cromatici che valorizzano lo spazio e le potenziali energie del materiale in tensione operativa. Non è la funzionalità che guida la passione creativa, ma la ‘reazione estetica’ si rivela quando lo sguardo si appunta sulle rifiniture e la struttura della composizione: l’artista è fabbro, scultore e pittore, ha bisogno di portare a compimento l’opera come ‘creatura minerale’ su cui alita il soffio della vita. Spesso accade di rintracciare in certe forme la memoria di cose viste, o di immagini sedimentate nella memoria: la struttura di un torchio (base quadrata di legno, cerchi di argilla patinata di diametro differente inseriti e imbullonati in un perno avvitabile) o quella di un metallico sudario appena sollevato e dal quale sbucano due braccia scheletriche e incatenate che muovono mani come fossero artigli in cerca di una postuma e trascendente ‘liberazione’ (fig. 9, fig 10). Con animo esuberante di bambino il demone espressivo Roberto Paolini metabolizza il vocabolario di origine informale che gli è connaturato come parte del bagaglio espressivo. Se Fautrier e Crippa sembrano essere fermento dell’immagine si avverte subito come il linguaggio futurista abbia però avuto in senso lato una più ricca influenza emotiva. Dai macchinari imbullonati di Depero alle svolazzanti ‘macchine inutili’ di Munari, al polimaterismo di Prampolini c’è un nutrito patrimonio di esperienze che fa da premessa al piacere artistico come ‘rischio’, come ‘gioco’ e come applicazione estetica a tutto campo. Se ne avesse avuto possibilità c’è da ritenere che uno spirito energetico ed inquieto come Paolini si sarebbe manifestato in tanti altri oltre a quel che gli è capitato di fare: e l’avremmo visto magari operare dalle vetrine alle stoffe, dalla ceramica ai cartelloni, dagli arredi alla pubblicità … Tutto il fascino delle materie prescelte si presta ad una poetica della simultaneità. Gli oggetti nati dalla tensione creativa sono frutto di una passionalità ‘sinestetica’ in grado di uniformare valori formali, plastici, cromatici, ma anche olfattivi, auditivi, tattili…

Nella fucina dell’artista non si dà spazio al gusto futurista che privilegia lo ‘splendore’ della macchina: però non c’è bullone, puleggia, telaio, disco, semiasse o altro congegno meccanico dell’automobile, che non torni come ingrediente nel gioco assillante della fantasia. Nascono così anche le sorprendenti associazioni para-scultoree, composte di elemento inorganico e organico, con l’impalcatura di manichini che figurano signore eleganti, guerrieri catafratti, cavalli tirati su da fili di ferro, con fasce coniche di metallo battuto a incastro, aggiunte di capigliature o testine modellate in terracotta, ed altro ancora (fig. 11; fig. 12; fig. 13; fig. 14; fig. 15). Sono opere in cui prevale una figura solidificata che attira lo sguardo su possibili volti senza volto e sguardo, esseri senza tempo e pure non vuoti e impagliati come gli ‘hollow men’ di Eliot, bensì evocanti immagini strane di fiaba popolare dal sapore metafisico e vagamente ‘ariostesco’ (fig. 16; fig. 17). Se c’è la cognizione estetica di un dolore contratto, vi si accompagna quasi sempre l’elemento umano che lo tramuta in forma e tocca l’iperbole della visione incantata, a volte quasi fiabesca (fig. 18). La qualità delle pitture-sculture di Roberto Paolini consiste nel far parlare la ‘sensibilità del materiale’, farlo apparire in pose ed azioni che sembrano compiersi davvero, con disinvolta naturalezza (fig. 19; fig. 20; fig. 21).

Anche la violenza, il peso, il gioco stringente dei minerali che si aggiogano e contrappongono, tende ad una semplificazione del racconto, e si entra nel mondo figurato dall’artista come si entra nel magazzino tempo. Il ciclo espressivo dell’artista-Paolini accompagna la biografia dell’uomo-Paolini come linfa emotiva che ha avuto la fortuna di emergere, dopo la sua scomparsa, con il getto propulsivo di una generosa energia formativa. Ho avuto modo di conoscere l’opera di Paolini poco prima della Biennale di Venezia del 2013, dove per il Padiglione siriano è stata esposta una installazione di pittura-scultura fatta di grezze mattonelle in terracotta intrecciate e sovrapposte, con la foto applicata di una latta ed un ornamento di grossi chiodi piantati in superficie (fig. 2; fig. 3; fig. 4). Fino a quel momento egli era per me uno sconosciuto, perché pochissime erano state le occasioni in cui aveva esposto qualcosa. Per questo è tanto più accresciuto il piacere di fronte all’opera come quando si è davanti ad una preziosa e imprevedibile scoperta.

La prima impressione è stata di una personalità versatile e al tempo stesso dominata da un coerente e tenace impulso stilistico. Paolini si è esercitato nell’arte del gioiello, per vivere. Ed ha ottenuto preziosi risultati nella rifinitura degli effetti luminosi e nell’intarsio dei materiali; egli ha elaborato anche oggetti di arredo, sedie, mobili, lampade, rispettando sempre il potere dell’immaginazione legato alla natura di vetro legno, e ferro. Fin dagli inizi della sua attività, tra gli anni Sessanta e Settanta del ‘900, l’estro della combinazione e del modellato si è rivelato preponderante: perfino quando ebbe ad eccellere come ‘chef ’di grandi alberghi o fu titolare di un ristorante egli fece prevalere la qualità della ‘materia prima’ su ogni altro segreto della gastronomia. Tecnica come protesi della espressione, che affonda le sue radici in quello che Gaston Bachelard chiamò il ‘potere immaginativo’ della materia. Fin dall’inizio ho appuntato la fervida fantasia di Roberto Paolini come quella di un solitario plasticatore che mette in luce il sofferto corpo a corpo con le materie su cui interviene (legno, vetro, terracotta, ferro) per ottenere ‘un ricercatissimo e raffinato equilibrio di forma e colore’. Ripensando alla carica emotiva contenuta nell’opera, che rinvia ad ripetizioni differenti del medesimo principio formativo, ho pensato al modo grazie al quale Eugenio Montale nel “Diario del ’71 e del ’72” rilevò il valore della poesia e la sua intrinseca liricità che, senza bisogno di spiegazioni, ‘sta come una pietra o un granello di sabbia … e ‘finirà con tutto il resto’.

C’è in Paolini una volontà di mettere in scena il dramma della virtù formativa. Quando procede  nell’espressione egli infatti non si domanda mai perché e neppure pensa a riferimenti culturali da prendere a modello: il poderoso connubio estetico di materie elementari (legno, vetro, ferro, argilla) a cui ricorre con impulso costruttivo lega in modo ipertestuale gran parte della produzione così che essa appare come rigoglioso crescere di fronde attorno all’albero originale della fantasia. L’opera che ‘sta, come la poesia di Montale, è un simbolo che riferisce sé stesso, si autogiustifica in quanto forma che rompe la regola del silenzio come ‘lingua della immaginazione’.

Elementi di recupero (ferro ed altro) fanno parte della poetica di Paolini, che ne ricava assemblaggi più o meno astratti o allusivi. Ma la poetica dell’oggetto trovato non predica né esibisce con intenzione il mondo dell’assurdo o l’ironico gioco dadaista della assenza di senso. C’è un valore aggiunto della forma, un desiderio di attingere il regno della fantasia che allontana l’animo di Paolini dai precipizi del surrealismo.

Un poco simile allo spirito costruttivo – astratto di Ettore Colla, l’oggetto estetico che nasce dalla sua mano ha qualcosa del totem (oggetto sacrale) e al tempo stesso è insignificante: energia della natura e manufatto dell’uomo celebrano un singolare sposalizio con il fascino persuasivo di tutto ciò che è primordiale (fig. 5; fig. 6; fig. 7; fig. 8). Ma il criterio compositivo ha pochi segreti, sembra quasi diffidare della consumata esperienza del ‘mestiere’. Paolini compone per figure elementari, gli basta sovrapporre una base circolare, 10 11 sintetica e simbolica del cosmo riassunto in elementi primari (fig. 60; fig. 61; fig. 62). Perfino l’argilla, esposta al tempo di cottura, accompagna l’avventura cosmogonica nel tentativo di esprimere l’originaria verità del mondo ricavata dal fondo percettivo della sensibilità. In questo caso, accanto alle modulazioni delle terrecotte a mattonella che popolano la superficie del quadro una serie di piccole e medie sculture conduce lo sguardo a intercettare la metamorfosi della figura umana in uno scambio con il magma solidificato (‘eri polvere, e polvere diventerai…’) quando le movenze di giovanetti accucciati o di figure imploranti senza volto sembrano prelievi ricavati dal terribile schianto di una eruzione devastante, come memoria o paragone dell’olocausto pompeiano (fig. 63; fig. 64; fig. 65).

È un richiamo evidente alla fragile precarietà vitale della presenza umana, sottile parvenza destinata ad immergersi nel vortice del cosmo. L’individuo come fenomeno emerge dal nulla e ritorna nel nulla … il motivo ripetuto ossessivamente del chiodo infisso nel vetro o nel mattone, l’argilla che evoca il mistero della vita e della perenne trasmutazione, indicano la presenza di dolore e pietà nel fondo sentimentale dell’artista.

Che questo aspetto psicologico stia alla base della sua espressione lo suggerisce in modo diretto e comunicativo anche la serie di sculture in cui Paolini riecheggia una sorta di ‘scena di Pietà’: con donne velate e senza volto che si aggruppano in atto di mesta contrizione, oppure si dispongono a schiera come tante suorine anonime, piccoli segni di anime toccate dal segno leggero di una individualità approssimata, in procinto di cadere nell’abbraccio dissolvente e misterioso del cosmo (fig. 66; fig. 67).

Ancora sorprende il tratteggiato oblungo di un corpo di madre velata (il volto appena accennato dai tratti scalfiti nell’argilla, come una maschera arcaica) che stringe al petto un corpicino di bimbo e la sua mano diventa una protesi smisurata tanto quanto l’afflizione del dolore o l’ansia di una tutela protettiva per la creatura accoccolata nel grembo (fig. 68; fig. 69). A questo tipo di figurazione stilizzata ed espressiva, Roberto Paolini ricorre di rado. Ma a partire da questa traccia si coglie in modo più esplicito l’entroterra psicologico che alimenta la sua ‘volontà d’arte’: per l’assiduo procedere di una costruttività che non è mai fine a se stessa, ma vive di una forte e contenuta emotività. C’è dunque da rilevare un tratto morale nella lunga e densa autobiografia per immagini che Roberto Paolini ha lasciato nella sua drammatica esperienza di artista, che non si è mai dissociata dal motivo di un intimo e assillante tormento esistenziale. Dall’insieme dell’opera, così apparentemente sperimentale e agevolmente variata, emergono le costanti di una finalità espressiva che punta a carpire con l’arte il ‘segreto della materia’ (o meglio: il mistero della vita) senza fermarsi al compiacimento estetico per il risultato raggiunto.

Elaborando forme in serie e tuttavia sempre differenti, grazie al dosaggio delle suscitate ‘affinità elettive’tra elementi inorganici e sentimenti umani, Roberto Paolini ha seguito fino in fondo l’impulso cieco e irresistibile di una ‘volontà d’arte’ che rivela al tempo stesso il fondo della sua più sofferta tendenza: la ricerca estrema di quella virtù consistente in una superiore ascesi che porta gradualmente al distacco individuale dall’opera compiuta e, in ultimo, dalla stessa ‘volontà di vita’. Roberto Paolini ha corso un simile rischio esistenziale e ne ha accompagnato il percorso con una preziosa fioritura formale: ciò conferma che la corrispondenza tra l’uomo e l’artista è il viatico migliore per accedere al segreto del suo stile, di un cantastorie, in presenza di un sapiente Mangiafuoco che smeriglia e lucida i suoi ‘burattini’ facendo loro assumere pose comunicative, soprattutto quando le rappresentazioni e le messe in scena sono ‘signifing nothing’, cioè raccontano solo sé stesse.

Una volta catturati dal ‘potere di immaginazione della materia’ suscitato dalle forme significanti, l’elemento statico e quello dinamico suggeriscono visioni inusitate o traggono spunti di fantasìa dalla combinazione di pesi e contrappesi: quando un poderoso sostegno a croce di ferro sospende un blocco di vetro agganciato ad un paio di molle ondeggianti ed allora compare la figura ieratica di una testa gigantesca da cui pendono e oscillano smisurati ‘orecchini’ (fig. 22); oppure quando, con abile virtù compositiva, l’artista mima una specie di grifo in metallo dal becco aperto (con un’asta e un semicerchio di ferro) dal quale pende una fune cui sono appesi, come oscillanti trofei di caccia, degli spezzoni di vetro (fig. 23; fig. 24); o infine quando, in una singolare congiuntura espressiva, elementi primari come la pietra e il ferro compongono strutture portanti che evocano la primitiva sacralità della stasi (fig. 25). Il mondo visionario di Paolini è una sconfinata biblioteca di Babele dove i segni e i simboli si accordano per il piacere combinatorio delle immagini ben al di là del potere delle parole. I suoi oggetti inanimati disegnano una mappa incompiuta e punteggiano lo spazio come segnali di ‘geometria parlante’ abilmente modellata e messa in scena. C’è una vita delle forme che giova al potere immaginativo della materia. A partire dal vetro, per esempio, dove la solidificazione non cristallizzata del liquido avviene nel punto in cui l’artista decide di fermare l’intervento plastico della mano; allora una varietà cangiante di colore si impasta e accentua il modellato con le trasparenze senza perdere la qualità di materia prima che diventa volto umano senza volto (fig. 26), cascata d’acqua gocciolante di fontana (fig. 27, fig. 28; fig. 29; fig. 30; fig. 31) o ancora tergiversante accoppiamento di bottiglie appiattite o allungate, fino ad ottenere l’effetto spaesante della ‘macchina celibe’ (fig. 32). Se il ferro costituisce l’elemento basilare di ogni pensiero visivo, vetro, legno e argilla agevolano l’espressione di Paolini con effetti di brillante tonalità che animano e dilatano le superfici, articolano il fiabesco motivo della pittura-scultura. Lo spazio può essere quello di un dipinto a fondo monocromatico dove la poetica del ‘muro’ (stesura di tono grigio su fondo sabbioso ed irsuto) è intercalata dall’emergere di grossi chiodi piantati a definire un perimetro di diverso colore e a geometria variabile (fig. 33): un tema ricorrente nelle ‘pitture’ di Paolini, dove il chiodo è ideogramma, segno e simbolo che suggerisce un alto grado di emotività (dolore-passione, forza-energia vitale … fig. 34; fig. 35; fig. 36; fig. 37; fig. 38). La serie delle ‘pitture’ ha

una gamma variabile che testimonia la vitalità espressiva dell’autore e la volontà di racchiudere nell’immagine tutto il mondo dei significati: quando il ferro o il vetro vengono fusi o fatti gocciolare; o quando la superficie è imbastita da reti metalliche, intercalata e impreziosita dall’oro, dal rosso, dal fondo ramato, dai toni del grigio; oppure quando le gradazioni tonali e del ‘dripping’ si stendono su supporti di legno a strati, con foto incollate, specchi sabbiati, ed un trasparente reticolo di vetro che illumina ed elettrizza la superficie (fig. 39; fig. 40; fig. 41; fig. 42; fig. 43; fig. 44; fig. 45; fig.46; fig.47; fig.48; fig. 49; fig. 50; fig. 51).

Si dovrebbe parlare ancora delle numerose composizioni con le pietre trovate (fig. 52) o ciotole d’argilla sapientemente cesellate (fig. 53; fig. 54; fig. 55; fig. 56) o accatastate (fig. 57); della serie di bottiglie rovesciate ad incastro nelle incorniciature di ferro e legno (fig. 58; fig. 59); degli effetti di profondità spaziale raggiunta dalle ‘pitture’ effettuate su legno, con sovrapposizioni a strati e accordi di colore da cui sbuca, come d’improvviso,

Roberto Paolini – Il Libro